Fotografarsi con un’opera d’arte viola il diritto d’autore?
Siamo, come spesso accade in un mondo con tecnologie in continua evoluzione e movimento, di fronte a quella che i sofisticati esegeti definiscono la “frontiera mobile del diritto”. Quello che tempo fa poteva costituire una violazione marchiana di un diritto esclusivo, ovvero riprendere un immagine all’interno di una esposizione privata, è oggi considerato libero e ammissibile, anzi, non ci si pone più il problema dello scatto dell’opera in se – chi se ne può o vuole interessare quando sono disponibili in rete centinaia di immagini liberamente scaricabili di qualità molto migliore di quella permessa dagli smartphones o dagli apparecchi fotografici digitali cui il singolo utente non professionista fa ricorso per collezionare i propri scatti da ricordare? – la frontiera si è già spostata in avanti e per capire dov’è ora bisogna ricorrere ad un pensiero più amplio, occorre infatti capire cosa sia proteggibile dell’immagine da riprodurre o riprodotta ed in che modo la contaminazione della stessa immagine – come nei selfie- rappresenti una violazione del diritto d’autore.
Il facile entusiasmo di chi si occupa di art law non deve però portarci fuori strada. Tentiamo di fare un po’ di ordine. Nella notizia della National Gallery non troviamo nulla di particolarmente strano o aggressivo, anzi è la decisione di una istituzione tendenzialmente tradizionalista di abbandonare la battaglia di retroguardia del divieto degli scatti alle opere di cui esistono e sono liberamente consultabili copie e riproduzioni. Già la Tate e la National Potrait Gallery a Londra avevano da tempo “liberalizzato” gli ingressi degli smartphones e l’utilizzo di fotografie e selfie.
Anche nei nostri non modernissimi musei e gallerie ormai le fotografie sono quasi sempre ammesse salvo l’uso dei flash per motivi (sacrosanti ed oggettivi) di conservazione delle opere.
Su questo fronte dunque non ci sembra ci sia una concreta possibilità di violazione del diritto di autore salvo che lo scatto estemporaneo sia poi utilizzato pubblicamente ed ai fini commerciali. La violazione del diritto d’autore mediante i selfies sembra ipotizzabile dalle corti Inglesi e statunitensi solo quando l’utilizzo dell’opera “sullo sfondo” non sia “accessorio” (incidental) ma strumentale al messaggio che si vuole trasmettere in maniera pubblica ( twitter, facebook o altri mezzi di condivisione, tendenzialmente globale) e quando tale messaggio sia inteso a raggiungere un obiettivo commerciale o promozionale.
Questo per quanto riguarda collezioni permanenti di opere arci-note ed arci-rappresentate.
Ma come si difende l’artista che propone una sua temporanea e non ha ceduto nessuno dei suoi diritti al museo o alla galleria? Il tema parrebbe essere solo legato alla sicurezza e a maggiori controlli degli accessi alle mostre con personale addetto a bloccare il visitatore che non sa resistere allo scatto vietato.
Ma non è cosi in un mondo dove l’arte è contaminata dalla tecnologia e dove gli stessi artisti utilizzano materiale o immagini presenti in rete per creare le loro opere. Il confine del diritto come lo conoscevamo fino a qualche tempo fa tende quindi a dissolversi se si pensa all’arte interattiva, dove la presenza del fruitore modifica l’opera stessa: come determinare i confini dell’opera e capire ciò che ne viola il contenuto innovativo e creativo e ciò che invece è semplicemente il risultato dell’attività di fruizione?
L’arte contemporanea è sempre di più influenzata dalla fisica quantistica, dove tutte le realtà ugualmente possibili si consolidano in una (“l’evento” in fisica “l’opera” in arte) al momento della rilevazione dell’esperienza da parte dell’utente, l’opera non è solo fortemente influenzata ma è “attivata” dall’intervento del fruitore.
La tutela del diritto d’autore sta diventando impari e gli strumenti disponibili fino a solo pochi anni fa sembrano non essere più attuali. La sfida vera sembra essere quella di pensarne di nuovi e di riformulare i canoni di ciò che si intende per opera d’arte.