Confusione o contraffazione: penale o civile
Cassazione penale, sezione II, 26/6/2014, n. 28922
La Cassazione penale è recentemente ritornata su un tema che, a dispetto di alcune precedenti pronunce di legittimità, non appare ancora del tutto ben delineato nei sui principali tratti distintivi.
Il caso riguarda un imprenditore genovese il quale, a parere del Tribunale prima e della Corte d‘Appello poi, aveva introdotto in Italia 14.800 borse e 9.240 portafogli con marchio contraffatto “Gucci” realizzando così il reato di cui all’art. 474 c.p. che punisce “chiunque introduce nel territorio dello stato, al fine di trarne profitto, prodotti industriali con marchi o altri segni distintivi contraffatti o alterati”.
L’imputato, va chiarito, era altresì titolare del marchio “GB Dood By” registrato all’ufficio brevetti e marchi a seguito di domanda presentata nel 2007 (in epoca successiva all’importazione dei prodotti) e pertanto, nell’ottica della difesa, il marchio oggetto reato – che invero non recava affatto la scritta “Gucci” – sarebbe stato riferibile esclusivamente a quello regolarmente registrato dall’imprenditore genovese.
Tuttavia, secondo i giudici di primo e secondo grado, quanto appena detto (e, quindi, la esistenza di un secondo e successivo marchio) sarebbe stata del tutto irrilevante in quanto l’unico – e decisivo – elemento da prendere in considerazione ai fini della individuazione del reato contestato, sarebbe stata la mera e palese similarità dei due marchi in discussione.
Ebbene, a seguito del ricorso dell’imputato, la Corte di Cassazione è giunta a conclusioni differenti e, analizzando la questione da un diverso punto di vista, ha annullato la sentenza d’Appello.
A parere della Suprema Corte, infatti, occorre avere riguardo agli elementi caratterizzanti l’art. 474 c.p. ed al concetto di “materiale contraffazione” ovvero la realizzazione di altro marchio dello stesso tipo, conformazione e caratteristica funzionale; la confusione tra marchi, pertanto, si atteggia come uno degli elementi da cui dedurre la avvenuta contraffazione, ma tale elemento, di per sè, non è sufficiente a costituire il reato; in tale ultimo caso, però, la tutela della vittima è comunque garantita in sede civile dall’art. 2598, n.1, c.c. (atti di concorrenza sleale) che infatti richiede, come condizione necessaria e sufficiente, quella in cui si usino nomi e segni distintivi idonei a creare confusione con quelli usati da altri o che imitino servilmente prodotti altrui.
In altre parole, secondo la Corte, la contraffazione ex art. 474 c.p. non coincide con quelle integranti l’illecito civilistico della concorrenza sleale ex art. 2598, n.1, c.c., conseguentemente ragionare in termini differenti, come invece hanno fatto i giudici di secondo grado là ove hanno perfettamente “sovrapposto” le due norme citate, costituisce un’errata applicazione della legge.
Alla luce di quanto sopra, la Corte ha concluso stabilendo che, ai fini del decidere, sarebbe stato necessario accertare – in presenza di un marchio registrato in capo all’imputato – che quelli apposti sui prodotti oggetto di procedimento fossero la contraffazione di quello “Gucci” e non una mera espressione di quello registrato, per quanto idoneo a determinare confusione; la fattispecie in esame, in definitiva, è certamente idonea ad integrare l’illecito – civile – della concorrenza sleale, ma non è caratterizzata da tutti gli ulteriori elementi necessari per integrare il diverso illecito – penale – concernente la contraffazione del marchio.
Sulla base di ciò, pertanto, la sentenza d’Appello è stata annullata e nel contempo la Cassazione ha colto l’occasione per meglio specificare la “cornice” entro cui opera, da una parte, la contraffazione ex art. 474 c.p. e, dall’altra, la sleale confusione tra i marchi ex art. 2598 c.c.