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Brexit: Much Ado About Nothing?

E’ passata una settimana dalla vittoria del leave al referendum avente ad oggetto la permanenza del Regno Unito all’interno dell’Unione Europea. Bollata dagli europeisti come il Black Friday del nostro secolo e dai brexiters come data-simbolo della liberazione dalla asfissiante burocrazia di Bruxelles, non vi sono dubbi che la giornata del 24 giugno 2016 entrerà nelle pagine dei libri di storia. Favorevoli o contrari, l’unica certezza è che il leave ha irrimediabilmente modificato lo status quo, con effetti dirompenti su molti fronti, politici e finanziari in primis.

Non sono mancati colpi di scena tra subitanei ripensamenti del corpo votante, dissolvimento di inverosimili promesse da campagna elettorale (i presunti fondi da investire nel sistema sanitario inglese) e avvicendamenti politici (le dimissioni di Cameron, la lotta per la leadership sia nel partito Tory che Labour). Si è trattato, infatti, di un testa a testa, che ha lasciato a molti dell’ amaro in bocca e acuito conflitti mal sopiti all’interno della società inglese. In particolare, si è delineata una netta contrapposizione tra città e provincia, popolazione giovane e più anziana, oltre alla riemersione di spinte indipendentiste.

Tra le analisi moltiplicatesi negli ultimi giorni un tema spesso trascurato, ma di grande interesse giuridico ed enorme rilevanza nei mesi a venire, riguarda la natura della consultazione referendaria.

Può sembrare un aspetto scontato, posto che le recenti discussioni si sono concentrate esclusivamente sulle conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Unione, ma da un punto di vista prettamente giuridico va chiarito che l’esito del voto sulla Brexit non ha di per sé alcuna efficacia vincolante.

Come affermato dalla stessa House of Commons, il referendum appena tenutosi era dotato di un’efficacia meramente consultiva e, pertanto, il voto espresso non ha alcuna conseguenza immediata e diretta in merito all’uscita del Regno Unito dall’UE.

Ciò sulla base di due distinte fonti normative.

Innanzitutto, lo European Union Referendum Act del 2015, ossia la legge istitutiva del referendum, non ha previsto, in caso di voto affermativo,  alcun obbligo per il governo di legiferare in conformità allo stesso (a differenza di quanto era accaduto nel 2011 con il referendum sulla riforma del sistema elettorale), di fatto escludendo qualsiasi effetto vincolante della consultazione.

Inoltre, l’art. 50 del Trattato di Lisbona prevede che uno Stato Membro possa decidere di recedere dall’Unione nel rispetto dei propri principi costituzionali. 

In punta di diritto, il Regno Unito è uno dei pochi Paesi al mondo privi di una costituzione scritta, situazione che rende complessa l’applicazione dell’art. 50 laddove impone il rispetto dei dettami costituzionali per l’uscita dall’Unione.

La procedura stabilita all’art. 50 consiste in una  notifica che lo Stato Membro deve inviare al Consiglio europeo manifestando la propria volontà di recedere, a decorrere dalla quale scatta un termine di due anni per i negoziati finalizzati all’uscita. Una volta inviata la notifica, non è prevista la possibilità di ritirarla: alea iacta est. Ecco perché, ad oggi, Londra pare temporeggiare.

Peraltro, anche tralasciando il clima di incertezza politica conseguente alle dimissioni di Cameron e alla ribellione dello shadow cabinet di Corbyn, a livello formale non è chiaro chi abbia l’autorità di provvedere alla notifica. In proposito, ci si domanda astrattamente se sarebbe sufficiente l’iniziativa del Primo Ministro o, in considerazione del principio della sovranità del parlamento (il solo, nelle parole di  Dicey ad avere “il potere di fare e disfare le leggi”), sarebbe comunque necessario un avvallo da parte di Westminster? Il Parlamento inglese, ed è intorno a questo che ruota la questione, non è in alcun modo vincolato dal voto popolare e dunque, proprio in virtù di quella sovranità che lo contraddistingue, ben potrebbe esprimere un parere negativo e, di fatto, bloccare del tutto il processo di uscita.

Di certo, si riscontra del tipico humor inglese all’idea che, qualora il Parlamento inglese dovesse essere chiamato a votare, gli attuali paladini della sovranità dello stesso nei confronti delle ingerenze di Bruxelles si troverebbero a difendere la vincolatività di un voto popolare extraparlamentare, che, in parte, esautora Westminster.

Alla luce di quanto sopra, è chiaro che la questione non riguarda tanto l’efficacia giuridica quanto la mera  opportunità politica.

Come ha sottolineato David Allen Green, avvocato inglese e autorità in materia costituzionale “Ciò che accade ora è una questione di politica, non di diritto. Si ridurrà tutto a ciò che è politicamente opportuno e fattibile. Il governo inglese potrebbe cercare di ignorare il voto, bollandolo come poco affidabile. O potrebbe sostenere  che si tratti di una materia di competenza del Parlamento, cercando di trovare una maggioranza favorevole all’esito sperato”.

Alcuni sottolineano come in passato referenda relativi all’Unione Europea siano stati ripetuti al fine di rovesciare un precedente risultato “sfavorevole”.

Di certo, l’eventuale discostamento dalla volontà espressa tramite il referendum costituirebbe un atto di forza da parte del governo, uno strappo difficile da sanare, quasi un suicidio politico, soprattutto se si considerano le parole di Cameron nel celebre Bloomberg Speech del gennaio 2013, con cui si è abbracciata l’iniziativa del referendum: “E’ tempo per il popolo inglese di avere la parola. E’ tempo di risolvere la questione europea all’interno della politica inglese. Io dico agli inglesi: questa sarà una vostra decisione”.

Se l’esito della consultazione referendaria si è dimostrato imprevedibile anche per i sondaggisti più infallibili,  al momento pare ancora più  arduo supporre  quali saranno le mosse politiche del prossimo inquilino del numero 10 di Downing Street.

Insomma, Brexit è tutt’altro che deciso: nei prossimi mesi ne vedremo delle belle.

Sicuramente gli scenari sono molteplici e non costituisce una corretta forma di informazione il comunicare che la Gran Bretagna debba  ormai uscire dall’Unione Europea a causa del referendum. La sua sarà una decisione politica non vincolata giuridicamente.

Come ha detto recentemente Papa Francesco, l’Europa deve avere la forza e l’umiltà per rivisitare il suo modello di governance ma deve soprattutto metterci coraggio e creatività.

Proprio dentro questi due ultimi termini risiede, a nostro avviso, la soluzione meno traumatica di Brexit.

 

Riccardo Rossotto

(ha collaborato Giulia Pairona)

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