Veicoli fabbricati in Cina e rifiniti in Molise: sanzione di Euro 3 milioni per ingannevolezza sul “Made in Italy”
Auto costruite in Cina e rifinite in Molise: arriva la sanzione dell’AGCM per ingannevolezza sul “Made in Italy”.
- Premessa
Con provvedimento del 11.06.2024, l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato ha sanzionato una casa automobilistica italiana ritenendo ingannevoli le modalità adottate per promuovere la vendita di veicoli costruiti in Cina e rifiniti in uno stabilimento molisano.
Secondo l’AGCM, la forte enfasi posta nei messaggi pubblicitari sul legame tra il brand e l’italianità avrebbe indotto in errore i consumatori circa l’effettiva provenienza dei veicoli e avrebbe consentito alla società di beneficiare indebitamente di un significativo incremento delle vendite.
- Le pratiche commerciali contestate
2.1 Gli illeciti individuati dall’AGCM
L’istruttoria dell’AGCM, avviata su segnalazione di un solo consumatore, si è concentrata sulle varie comunicazioni commerciali veicolate dalla società, tutte incentrate sull’importanza del territorio con frequenti ed espliciti richiami all’italianità dei veicoli.
Il principale video promozionale analizzato dall’Autorità era costituito da “una lunga sequenza di immagini, riguardanti non solo i luoghi più rappresentativi del territorio molisano, ma soprattutto una catena di montaggio delle autovetture all’interno di capannoni industriali; queste immagini raffigurano le autovetture nelle diverse fasi di costruzione, sin dalla fase iniziale di saldatura delle lamiere. Nella parte finale del video si vedono le autovetture ‘finite’”, con voci fuori campo che usavano espressioni enfatiche come “questo facciamo qui, ogni santo giorno” e “questo è il Molise, queste sono le nostre auto e la nostra è una storia italiana”. Altri spot pubblicitari includevano “immagini dei luoghi e monumenti italiani più iconici” e “immagini di prodotti e lavorazioni identificative nel mondo della creatività italiana e del Made in Italy quali le immagini di una sfilata di moda, della preparazione del vetro di Murano e della realizzazione artigianale di un mosaico”, accanto ad una catena di montaggio di autovetture della società nella fase iniziale della saldatura delle lamiere.
Inoltre, dalle email raccolte nel corso dell’istruttoria è emerso come i dirigenti della società insistessero sulla scelta di aver “puntato molto sul valore della italianità”. Ne è una conferma la scelta di utilizzare, nell’ambito di alcune campagne, il claim “una storia italiana” accompagnato dal tricolore.
A fronte di questa univoca impostazione comunicazionale, fortemente evocativa del made in Italy, l’AGCM ha accertato che – dopo una prima fase (2006-2010) in cui le vetture erano state effettivamente assemblate in Italia – i veicoli venivano in realtà importati dalla Cina. Questo dato è emerso dai contratti in essere con i fornitori cinesi, dal fatto che i dazi all’importazione erano corrisposti per “veicoli finiti”, dalla documentazione fotografica acquisita in area doganale che attestava in maniera inequivoca la consegna di veicoli completi e, soprattutto, dall’inesistenza di strutture ed impianti per la fabbricazione dei veicoli presso lo stabilimento italiano della società.
Secondo le contestazioni dell’Autorità, ciò che era svolto presso lo stabilimento molisano sarebbero stati meri “interventi di rifinitura” di peso marginale rispetto al processo produttivo (l’11,25% dei costi totali sostenuti) e attinenti al completamento di veicoli di per sé già finiti: la sostituzione della calandra frontale, la sostituzione dell’airbag del volante, l’apposizione del numero di serie, il montaggio dell’impianto GPL.
2.2 Le difese della società
La società ha allegato che “le auto sono […] disegnate e progettate nel nostro Paese”, con fabbricazione “per buona parte delegata a costruttori automobilistici cinesi” e successivo completamento in Italia attraverso “un’apposita linea di produzione”. In tal senso, il materiale promozionale veicolato non avrebbe fornito una rappresentazione falsa della realtà poiché l’italianità atterrebbe all’origine imprenditoriale del progetto ed al luogo di “ideazione sul piano intellettuale, estetico e progettuale delle autovetture”.
La società ha infatti dichiarato che, oltre a fornire le specifiche dei base ai costruttori cinesi, effettuerebbe controlli di conformità e periodiche verifiche presso gli stabilimenti esteri poiché – essendo titolare del processo di omologazione – sarebbe responsabile della conformità normativa dei veicoli. Ciò dimostrerebbe il ruolo centrale assunto nel processo produttivo delle automobili.
Inoltre, “né lo spot promozionale, né l’uso del tricolore che accompagna i marchi DR ed EVO, né l’utilizzo di claim quali ‘una storia italiana’, sarebbero idonei a confondere i consumatori circa il luogo di fabbricazione delle autovetture ma sarebbero stati orientati ad indicare la nazionalità dell’impresa stessa e ad esaltare la connotazione italiana nonché il radicamento territoriale del progetto”.
In ogni caso, le condotte contestate non sarebbero comunque state sufficienti ad incidere sul comportamento economico del consumatore rispetto ad una scelta che viene ponderata attentamente, anche per il necessario esborso economico che comporta: nella lettura difensiva, il consumatore italiano “non attribuirebbe alcun valore aggiunto al fatto che le autovetture siano materialmente prodotte in Italia, quanto, semmai, al design e all’estetica elaborati nel nostro Paese”.
- La decisione dell’AGCM
L’Autorità ha ritenuto che le immagini, gli slogan, i richiami impliciti ed i collegamenti logici utilizzati dalla società per promuovere i veicoli siano stati idonei ad evocare ingannevolmente l’italianità e ad incidere illecitamente sulle scelte dei consumatori.
La società avrebbe infatti fornito “informazioni fuorvianti e confusorie sulle attività materialmente svolte in Italia dal momento che confonde, consapevolmente, le attività di rifinitura e completamento (effettivamente eseguite) da quelle di produzione e fabbricazione (svolte da costruttori cinesi); ovvero ha continuato a dare informazioni poco chiare sul fatto che le auto sarebbero disegnate e sviluppate in Italia e sul fatto che esse sarebbero comunque ‘assemblate’ in Italia, circostanze entrambe non corrispondenti al vero”. La pratica commerciale scorretta si sarebbe dunque articolata in una serie di condotte volte ad accreditare la tesi che gli autoveicoli siano materialmente costruiti ed assemblati in Molise, dove non esiste alcuna catena di montaggio, quando in realtà i mezzi giungono “completi e marcianti dalla Cina”.
Non sarebbe stato in alcun modo dimostrato l’integrale svolgimento delle attività di design e progettazione in Italia, mentre sarebbe emerso che gli stessi veicoli sono commercializzati in Cina – dai partner costruttori della società italiana – con altri nomi e marchi.
Infine, lo svolgimento da parte della società italiana delle attività di verifica, adeguamento normativo e omologazione non farebbe altro che confermare la circostanza che si tratta di veicoli “finiti e marcianti” che – fabbricati in Cina – necessitano semplicemente di essere adeguati agli standard normativi previsti per la commercializzazione in Italia.
Sulla base di tali elementi, l’Autorità ha sanzionato la società italiana per Euro 3.000.000.
- Considerazioni finali
Il provvedimento dell’AGCM costituisce un importante precedente per la tutela dei prodotti italiani e dimostra come il generale quadro normativo sulle pratiche commerciali scorrette consenta di intervenire efficacemente a prescindere dall’adozione di norme speciali (come la legge sul made in Italy entrata in vigore all’inizio del 2024).
Poiché l’origine nazionale di un prodotto è una caratteristica di importanza sostanziale agli occhi dei consumatori, l’Autorità ha evidenziato con chiarezza che i riferimenti all’italianità sono consentiti solo se le attività di produzione si svolgano effettivamente nel territorio. La semplice rifinitura in Italia, eventualmente accompagnata delle attività di design (non provate nel caso di specie), non sarebbe quindi sufficiente a rivendicare l’italianità del prodotto.
Infine, l’intervento dell’AGCM dimostra come l’ingannevolezza di una pratica commerciale possa sorgere non solo dall’indebita adozione dell’espressione “made in Italy” ma anche dall’evocazione – più o meno indiretta – dell’italianità. Le argomentazioni delle Autorità dovranno quindi essere tenute in considerazione per l’ideazione delle campagne pubblicitarie e la realizzazione delle relative creatività da parte di società che non possano contare su una produzione concentrata integralmente nel territorio nazionale.