Commette autoriciclaggio l’imprenditore che reinveste in azienda il profitto del reato
Con la sentenza n. 37606 depositata l’11.9.2019, la Sezione II della Cassazione è tornata a definire i contorni del reato di autoriciclaggio disciplinato dall’art. 648-ter.1 c.p. La vicenda, assai nota, riguarda ipotesi di truffa realizzata mediante la vendita di diamanti a prezzi maggiorati rispetto al valore di mercato effettuata da una società attraverso la collaborazione di funzionari di alcune banche.
La Corte era chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del sequestro effettuato nei confronti dell’amministratore di fatto della società venditrice, la quale avrebbe reimpiegato i proventi dei reati presupposto nell’acquisto di altri diamanti da utilizzarsi in altre truffe. La Cassazione, nel respingere il ricorso dell’indagato, ha ribadito che il reinvestimento in azienda dei profitti del reato presupposto integra certamente il delitto di cui all’art. 648-ter.1 c.p., ciò anche quando le operazioni sono correttamente riportate nelle scritture contabili e nei bilanci di esercizio. La tracciabilità, infatti, non esclude l’idoneità a creare un concreto ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa del reato, considerato che, nel caso di specie, tali operazioni sono state effettuate nei confronti di società estere, con conseguente maggiore complessità nella ricostruzione dei flussi finanziari. Infondata anche la censura tesa a detrarre dal profitto confiscabile alcune voci relative a costi di gestione aziendale. La Corte ha chiarito che tali voci non possono essere considerate spese destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale, che ai sensi del co. 4 della norma in esame, varrebbero ad escludere la rilevanza penale della condotta. Ciò in quanto si tratta comunque di spese funzionali alla generazione di ulteriore profitto e quindi vanno calcolate nell’ambito dell’attività illecita.