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Compliance 231 – Rassegna Maggio 2017

La riforma del reato di corruzione tra privati.

Il 14.4.2017 è entrato in vigore il nuovo reato di corruzione tra privati, modificato dal D.Lgs. 38/2017. I soggetti punibili sono stati ampliati e ricomprendono ora tutti quanti svolgono funzioni manageriali ed anche coloro che pongono in essere la condotta per interposta persona. Estesa anche la condotta punibile, la riforma introduce la condotta di “sollecitazione” di denaro o altra utilità; parallelamente, al terzo comma e in tema di corruzione passiva viene introdotta la condotta di “offerta” dei medesimi beni.
La finalità del reato è quella di compiere od omettere un atto in violazione degli obblighi dell’ufficio o di fedeltà e non è più richiesta la prova di un danno per la società. E’ rimasta invece la procedibilità a querela di parte, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza.   
Il provvedimento inoltre introduce il reato di istigazione alla corruzione tra privati (art. 2635 bis c.c. ) ed inasprisce le sanzioni per l’ente nel caso in cui il corruttore sia soggetto che abbia agito in nome e nell’interesse dell’ente, prevedendo l’applicazione delle sanzioni interdittive. Rimane punito solo l’ente (che può essere anche una associazione) che abbia commesso corruzione attiva.  

Sezioni Unite: il reato di malversazione concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche

I giudici di merito avevano condannato gli imputati per il reato di cui all’art. 316-bis c.p. (per aver destinato beni dell’azienda, acquistati con fondi pubblici, a finalità diverse da quelle per cui erano stati erogati) e, contestualmente, prosciolto i medesimi per il più grave reato di truffa per il conseguimento della medesima sovvenzione pubblica (art. 640-bis c.p.). La difesa sosteneva che tra le due fattispecie sussistesse un concorso apparente di norme e che, quindi, il reato di malversazione dovesse ritenersi assorbito nel reato di truffa (prescritto). Le Sezioni Unite (sent. n. 20664 depositata il 28.4.2017), nel confermare la condanna, hanno chiarito che le due fattispecie sono interdipendenti e alla realizzazione dell’una non consegue necessariamente la realizzazione dell’altra. I due reati, inoltre, si consumano in momenti fisiologicamente diversi e sono posti a tutela di beni giuridici differenti.  
La sentenza non si occupa di analizzare le conseguenze per gli enti ai sensi del D.Lgs. 231/2001 (considerato che nel caso in esame non era stato contestato alcun illecito alla società); tuttavia, considerato che entrambe le ipotesi di reato comportano il coinvolgimento dell’ente, sussistendone i presupposti anche a carico della società potranno essere contestate entrambe le fattispecie, con tutte le ricadute in tema sanzionatorio.

La Cassazione delinea i confini dell’autoriciclaggio

La sentenza in esame, per quanto non recentissima, rappresenta una delle prime applicazioni giurisprudenziali della norma introdotta con la L. 186/2014 ed ha il pregio di fissare alcuni limiti all’applicazione delle norma valevoli anche con riferimento alla responsabilità dell’ente ex D.Lgs. 231/2001.
Secondo la Corte non integra il delitto di autoriciclaggio il versamento del profitto di furto su un conto corrente o su carta prepagata intestati allo stesso autore del reato presupposto poiché: 1)  deve considerarsi economica (secondo la indicazione fornita dall’ art. 2082 c.c.) soltanto quella attività finalizzata alla produzione di beni ovvero alla fornitura di servizi ed in essa non rientra certamente la condotta contestata; né tantomeno può ritenersi un’attività “finanziaria” intesa come ogni attività rientrante nell’ambito della gestione del risparmio ed individuazione degli strumenti per la realizzazione di tale scopo; 2) ai fini dell’integrazione del reato, rilevano solo le condotte idonee ad “ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”, ovvero quelle condotte caratterizzate da particolare capacità dissimulatoria, finalizzate ad occultare l’origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto, ipotesi questa non ravvisabile nelle condotte in esame.

Inammissibile la costituzione di parte civile da parte della società imputata ex D.Lgs. 231/2001 nei confronti degli imputati persone fisiche

Nell’ambito di un procedimento penale relativo a vicende di falso contabile e altre infedeltà patrimoniali poste in essere dagli amministratori di un importantissimo istituto bancario, il Tribunale di Milano non ha ammesso la costituzione di parte civile della società, parimenti imputata ai sensi del D.Lgs. 231/2001, nei confronti degli imputati persone fisiche. Secondo i giudici medeghini, la società non può assumere la posizione di soggetto imputato nell’ambito del giudizio che si svolge nei suoi confronti e, contestualmente, il ruolo di parte civile nei confronti delle persone fisiche e ciò neanche nel caso in cui la società abbia definito separatamente la sua posizione e, dopo l’emersione dei fatti oggetto di reato, abbia provveduto a modificare radicalmente l’assetto organizzativo e a sostituire nella sua integrità i membri del Consiglio di Amministrazione e tutti i soggetti che rivestivano ruoli apicali all’interno della società.

Responsabilità dell’ente in tema di reati ambientali; la delega di funzioni

Con una recente decisione (n. 9132/2017), relativa alla contravvenzione di gestione illecita di rifiuti in difformità rispetto alle autorizzazioni vigenti (art. 256 co. 1-4 D.L.gs. 152/2006 e art. 25-undecies D.L.gs. 231/2001) la Cassazione ha chiarito che: 1) la responsabilità degli amministratori in materia di gestione dei rifiuti “deriva non solo dai principi fissati dal D.Lgs. 152/2006 (che pone a carico dei soggetti coinvolti nella produzione, distribuzione, utilizzo e consumo di beni da cui originano i rifiuti, il dovere di cooperare nella gestione del ciclo dei rifiuti), ma più direttamente dal fatto che titolare dell’attività è la persona giuridica da essi rappresentata definita come “produttore del prodotto” e/o comunque “detentore” del rifiuto ai sensi dell’art. 183 D.Lgs 152/2006; 2) poiché la legge individua nella persona giuridica il soggetto direttamente responsabile della gestione del ciclo del rifiuto, ai fini della rilevanza penale della delega di funzioni è necessaria la compresenza di precisi requisiti: a) la delega deve essere puntuale ed espressa, con esclusione in capo al delegante di poteri residuali di tipo discrezionale; b) il delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato; c) la delega deve riguardare anche i correlativi poteri decisionali e di spesa; d) l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo. Dall’accertamento della mancanza di detti requisiti, la Cassazione deduce l’assenza di un’efficace delega e conclude: “La mancanza di deleghe di funzioni, nei termini sopra indicati, è fatto che di per sé prova la mancanza di un efficace modello organizzativo adeguato a prevenire la consumazione del reato da parte dei vertici societari”.

La decorrenza del termine iniziale della misura cautelare interdittiva

Il termine iniziale di decorrenza della misura cautelare interdittiva del divieto di contrattare con la P.A. deve essere individuato nella data di notifica dell’ordinanza cautelare dell’ente, essendo irrilevante l’adempimento successivo, che non ha effetto costitutivo ma di mera pubblicità notizia, della comunicazione del provvedimento ad altri soggetti deputati a verificare l’effettivo rispetto della misura interdittiva.
Lo ha stabilito in una recente sentenza la Suprema Corte (sez. VI, n. 15578/2017) che, rigettando la tesi contraria proposta dal giudice di merito che ancorava il decorso della misura dalla comunicazione ai sensi dell’art. 84 D.Lgs. 231/2001 al soggetto terzo deputato al controllo su eventuali elusioni del divieto da parte dell’ente, chiarito che l’esigenza di conferire effettiva efficacia alla misura è garantita dalla fattispecie di reato prevista dall’art. 23 D.Lgs. 231/2001 in caso di inottemperanza del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione.

Al Senato un disegno di riforma in materia di sicurezza e salute dei lavoratori (DDL 2489)

Rilevante ai fini del D.Lgs. 231/2001 è la proposta di modifica contenuta all’art. 17 nel quale, riprendendo i requisiti già descritti all’articolo 30 del Testo Unico, fissa le caratteristiche che il modello di organizzazione e gestione della salute e sicurezza sul lavoro deve avere per poter avere efficacia esimente rispetto alla responsabilità ex D.Lgs. 231/2001. In particolare, deve essere improntato: a) al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione; c) alle emergenze, al primo soccorso, alla gestione degli appalti, alle riunioni periodiche di sicurezza, alle consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza e alle altre attività di natura organizzativa; d) alle attività di sorveglianza sanitaria; e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori; f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; g) all’acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie per legge; h) alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia dette procedure adottate. Deve inoltre prevedere idonei sistemi di registrazione dell’avvenuta effettuazione delle attività sopra descritte nonché, compatibilmente con le dimensioni dell’ente e dell’attività svolta, un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio, e un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello, assicurando un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate.

Sulla natura delle sanzioni interdittive previste dal D.Lgs. 231/2001

Con la sentenza n. 45472/16 la Corte di Cassazione, sulla scorta di un precedente consolidato orientamento e soprattutto di una precedente decisione a Sezioni Unite in tema di confisca (Cass., SU. n. 26654/2008), ha ribadito che, in tema di responsabilità da reato degli enti, le sanzioni interdittive devono essere considerate vere e proprie sanzioni principali e non già mere sanzioni accessorie. Sicché, in caso di sentenza di patteggiamento ai sensi degli artt. 444 ss. c.p.p., tali sanzioni interdittive devono essero oggetto di un espresso accordo processuale tra le parti in ordine al tipo e alla durata delle stesse e non possono essere applicate dal giudice in violazione dell’accordo medesimo.  
Pubblicato il primo rapporto dell’ENAC sul c.d. Whistleblowing
http://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/Anticorruzione/SegnalIllecitoWhistleblower/_presentPrimoMonitoraggioNaz
L’ANAC ha reso noti i risultati del primo monitoraggio sul whistleblowing, confrontando la realtà italiana con le esperienze in particolare dei Paesi membri dell’OCSE.
Il documento analizza l’attività di reporting relativa ad un campione di 34 pubbliche amministrazioni e 6 società partecipate al fine di individuare alcune caratteristiche del “segnalante”, la tipologia delle condotte illecite denunciate e gli esiti della “denuncia”.
È emerso in primo luogo un vuoto di tutela nei confronti del segnalante, se si esclude l’accordo di collaborazione tra ANAC con Libera (www.libera.it) e Transparency Italia (www.transparency.it), situazione che rende l’Italia inadempiente rispetto a diverse fonti internazionali.
Infine, il rapporto ANAC si sofferma ad esaminare il ruolo del Responsabile della Prevenzione della Corruzione (R.P.C.), rilevandone il sostanziale fallimento dovuto, in particolare, alle interferenze dei vertici dell’amministrazione e dell’organo di indirizzo politico e al ricorrente conflitto di interessi tra l’R.P.C. e i suoi superiori gerarchici considerando che molte delle segnalazioni riguardano proprio tali ultimi soggetti.

I risultati di un’indagine condotta sui Modelli Organizzativi 231 e anticorruzione

Sono stati pubblicati i risultati di una recente indagine condotta da CONFINDUSTRIA, in collaborazione con TIM, sulla effettiva diffusione dell’adozione del Modello 231 e sull’approccio verso i fenomeni corruttivi nell’ambito delle PMI. I risultati confermano che, mentre tutte le grandi imprese (con più di 250 dipendenti e fatturato superiore a 250 milioni di Euro) hanno adempiuto alla normativa fissata dal D.Lgs. 231/2001, la grande maggioranza delle piccole e medie imprese (che costituiscono il tessuto del sistema imprenditoriale italiano), pur a fronte della percepita importanza di intervenire in questo settore, non hanno adottato un modello (adempimento praticamente sconosciuto tra le imprese con meno di dieci dipendenti). Oltre la metà dei Modelli sono stati adottati tra il 2008 e il 2013, a conferma che un’importante spinta in questo senso è arrivata dall’estensione della responsabilità dell’ente ai delitti in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Emerge peraltro che, in larga parte, all’adozione del Modello non è comunque seguita un’effettiva implementazione del sistema sanzionatorio disciplinare, con evidenti ricadute sull’effettiva idoneità del Modello.
Infine, con riguardo ai fenomeni corruttivi, emerge che una larga parte delle imprese, alla possibile evidenza di pratiche o richieste illecite, non contempla l’idea di presentare una denuncia, verosimilmente per il timore, in presenza di reati già commessi, di essere coinvolta nel procedimento penale avviato su iniziativa della stessa società.

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