Update | Un finanziamento soci può essere “immorale”? Il buon costume (ri)entra nelle aule dei tribunali ci...
Nel 2024 può forse stupire che la Corte di Cassazione bolli come “immorale” un finanziamento soci, perché contrario al buon costume. Eppure – anche se spesso trascurato – si tratta di un principio scritto nero su bianco nel codice civile: è l’articolo 2035 a sancire che “chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato”.
In altre parole, se il finanziamento è contrario al buon costume, chi lo ha erogato non ha diritto di chiederne la restituzione.
La questione è stata affrontata in un contesto molto frequente: il socio e amministratore di una società che si trova – di fatto – in stato di insolvenza ha effettuato più finanziamenti a favore della società, per fornire alla stessa la provvista finanziaria per pagare gli stipendi dei dipendenti ed i debiti correnti.
In questo ambito, la Suprema Corte afferma, innanzitutto, che il potere discrezionale del giudice di valutare l’eventuale contrarietà di tale operazione al buon costume: “la questione dell’irripetibilità delle prestazioni eseguite per contrarietà al buon costume è sottratta alla disponibilità delle parti (con conseguente irrilevanza di ogni ipotesi di preclusione o decadenza processuale), essendo il relativo accertamento demandato al rilievo d’ufficio del Giudice.”
Ciò significa che il giudice deve procedere d’ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite nel processo, alla valutazione dell’atto o del contratto sul piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente che la nozione di negozio contrario al buon costume comprende (oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza) anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente.
A nulla sono valse le eccezioni del socio finanziatore, contrapposto al fallimento della società che ha rigettato la sua richiesta di ammissione al passivo: la natura infruttifera del finanziamento; la destinazione dei fondi all’estinzione di altri debiti (senza aggravio, quindi, della posizione debitoria della società); l’assenza di uno scopo “predatorio” del finanziamento sono elementi di fatto che – non considerati dai giudici di primo e secondo grado – non possono essere valutati dalla Corte di Cassazione (chiamata ad un giudizio di sola legittimità).
Peraltro, la Suprema Corte ha aggiunto che l’assunto della natura infruttifera dei finanziamenti eseguiti dal socio amministratore non scalfisce il corretto percorso argomentativo seguito dal giudice di merito, per il quale siffatte erogazioni finanziarie erano prive di una “concreta finalità imprenditoriale” e “non riconducibili a un ragionevole programma di salvataggio“, traendone così l’inevitabile conseguenza che esse “non avessero altro scopo se non quello di procrastinare l’emersione del dissesto della società, anche a costo di aggravarne le conseguenze“.
Da qui la valutazione di immoralità del finanziamento.
La Suprema Corte ha precisato che le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza, ma sono anche quelle che non rispondono ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico, dovendosi pertanto ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l’erogazione di somme di denaro in favore di un’impresa già in stato di decozione integrante; un vero e proprio finanziamento, che consente all’imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l’esposizione debitoria dell’impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto.
Inoltre, se il mutuo è funzionale ad una strategia di occultamento del dissesto per finalità immorali non vi è dubbio – secondo la Suprema Corte – che lo stesso vada giudicato illecito e al buon costume, come integrato dalle regole di leale svolgimento delle relazioni competitive di mercato.
In conclusione, l’aggravamento riprovevole del dissesto dell’impresa finanziata supera ogni altra considerazione e rende inesigibile il finanziamento.
Cassazione civile, sez. I, 19 febbraio 2024, n. 4376. Pres. Ferro, Rel. Amatore.
La versione inglese dell’articolo è disponibile a questo LINK
1 Comment