Focus | La risoluzione del Parlamento europeo contro il lavoro forzato: strumenti di trade per una supply chain sostenib...
Introduzione
Il lavoro forzato è definito, ai sensi dell’art.2, comma 1 della Convenzione sul lavoro forzato e obbligatorio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) come “ogni lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente” ed è la forma più diffusa di schiavitù moderna. Secondo una stima dell’OIL nel mondo le vittime di lavoro forzato sarebbero 25 milioni, di cui 20.8 milioni solo nel settore privato. Il lavoro forzato ostacola fortemente lo sviluppo sostenibile e genera un rilevante impatto negativo sulla povertà intergenerazionale, sulla governance e sulla disuguaglianza ed alimenta corruzione e flussi finanziari illeciti.
La risoluzione del Parlamento Europeo contro il lavoro forzato
Per queste ragioni il 9 giugno 2022 il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione per promuovere l’adozione una nuova misura finalizzata a vietare la commercializzazione dei prodotti realizzati con il lavoro forzato (2022/2611 (RSP)). Tale strumento dovrebbe impedire la commercializzazione all’interno dell’Unione Europea di prodotti sulla base del sito di produzione, dell’importatore, dell’azienda, del trasportatore o della regione individuata (in caso di lavoro forzato sponsorizzato dallo Stato).
Nello specifico, il Parlamento muove dalla consapevolezza che il divieto di prodotti derivanti dal lavoro forzato non sia sufficiente ad eliminare alla radice il lavoro forzato e ritiene invece necessario dialogare con i paesi terzi, intraprendere azioni multilaterali ed utilizzare strumenti diversificati. Inoltre, si evidenzia come l’esclusione dei prodotti che derivano dal lavoro forzato dipenderà da fattori variegati quali “la percentuale della domanda settoriale globale che partecipa al boicottaggio, i costi e la redditività per le imprese esportatrici della diversione degli scambi, della ridistribuzione degli scambi o della trasformazione dei prodotti del potere di mercato dei fornitori e dal modo in cui il governo interessato risponde alle pressioni esterne” e sottolinea come, al fine di essere compatibile con l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), qualsivoglia esclusione di prodotti dovrà evitare di violare gli accordi di libero scambio finalizzati ad evitare una discriminazione delle merci a causa della loro provenienza geografica.
Sulla base di tali considerazioni il Parlamento:
- ha richiesto la creazione di un nuovo strumento commerciale compatibile con l’OMC, al fine di integrare le norme sugli obblighi di due diligence (in particolare, la proposta di direttiva sulla due diligence di sostenibilità, presentata a febbraio 2022) a carico delle imprese e che vieti l’importazione o l’esportazione di prodotti trasportati o realizzati con il lavoro forzato. Tale strumento dovrà inserirsi in un quadro europeo proporzionato, efficace e non discriminatorio e potrebbe prendere spunto dalle best practice di paesi aventi una legislazione simile in materia, quali per esempio Canada e Stati Uniti;
- ha auspicato che la determinazione dell’eventuale ricorso al lavoro forzato sia basata sugli indicatori del lavoro forzato dell’OIL;
- ha affermato come, nel contesto del nuovo strumento, le autorità pubbliche dovrebbero autonomamente, o in base alle informazioni ricevute, trattenere le merci alle frontiere dell’Unione Europea laddove ritengano vi siano sufficienti prove che dimostrino che le stesse siano state realizzate o trasportate con lavoro forzato. All’importatore delle merci bloccate dovrebbe poi essere data la possibilità di contestare l’accusa, dimostrando la legittimità del trasporto o della produzione delle merci in questione. Le prove utilizzabili dovrebbero basarsi sulle norme dell’OIL;
- ha osservato come i prodotti dovrebbero essere sottoposti a sequestro, laddove vi siano prove ragionevoli che dimostrino che gli stessi siano stati prodotti o trasportati con lavoro forzato;
- ha invitato la Commissione a fornire alle imprese, soprattutto alle PMI, idoneo supporto, tecnico e non, al fine di conformarsi alle nuove norme evitando inutili oneri per le stesse;
- ha sottolineato come la Commissione, nella persona del responsabile dell’esecuzione degli accordi commerciali, e le autorità nazionali debbano poter avviare le indagini preliminari e debbano poter agire sulla base delle informazioni ricevute da ONG e parti interessate grazie ad una procedura di reclamo standard e sicura;
- ha richiesto alla Commissione di garantire che il nuovo strumento obblighi le imprese che abbiano utilizzato forme di lavoro forzato a risarcire i lavoratori interessati, prima che vengano revocate le restrizioni all’importazione;
- ha proposto la creazione ed il mantenimento di un elenco pubblico delle entità, delle regioni e dei prodotti sanzionati;
- ha richiesto l’utilizzo di investimenti pubblici e privati, al fine di potenziare le capacità di produzione delle imprese che non utilizzano il lavoro forzato.
Gli strumenti di trade contro il lavoro forzato adottati negli Stati Uniti
Deve sottolinearsi come questa iniziativa europea si inserisca all’interno di un più ampio contesto internazionale, in cui diversi Paesi hanno negli anni tentato di individuare strumenti commerciali finalizzati a contrastare il lavoro forzato. Tra questi, e come menzionato dallo stesso Parlamento, vi sono senza dubbio gli Stati Uniti dove nel 1930 è stata adottata la Sezione 307 del Tariff Act con cui è stata proibita l’importazione di tutti i prodotti fabbricati totalmente o parzialmente con lavoro forzato, incluso il lavoro minorile. L’implementazione di tale divieto è stata attribuita sin dal principio al U.S. Customs and Border Protection (CBP). La sezione prevedeva la possibilità che tali prodotti venissero ammessi laddove fosse dimostrata l’inesistenza di prodotti analoghi nel mercato statunitense o l’impossibilità di rispondere alla domanda domestica unicamente con la produzione interna (“consumptive demand” clause). Tale clausola è stata tuttavia abolita nel 2015.
Al livello procedurale la Sezione 307 prevede una fase iniziale di segnalazione di prodotti potenzialmente frutto di lavoro forzato al CBP, a cui segue una fase di investigazione durante cui, in caso di ragionevoli indizi sulla possibile produzione tramite lavoro forzato, la CBP può emettere un ordine di sequestro dei beni sospetti (Withold release order: WRO). L’importatore ha tre mesi per contestare il sequestro sui propri prodotti e, al fine di superarlo, deve provare la legittima produzione e provenienza dei prodotti in questione.
Tale misura è stata poi seguita dall’adozione, il 23 dicembre del 2021, del Uyghur Forced Labor Prevention Act (UFLPA). Tale strumento legislativo, entrato in vigore il 21 giugno 2022, stabilisce una presunzione relativa sull’illegittima produzione dei beni prodotti o fabbricati in tutto o in parte nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang della Repubblica Popolare Cinese. In questo caso, l’importazione di tali beni è vietata ai sensi Sezione 307 del Tariff Act del 1930. Tale presunzione può essere tuttavia confutata tramite prove chiare e convincenti sulla legittimità del processo produttivo.
Conclusioni
Con la risoluzione presentata dal Parlamento Europeo in data 9 giugno 2022, si conferma la volontà dell’Unione di contrastare forme di grave sfruttamento lavorativo nelle filiere del valore globali. Questo strumento si inserisce in un quadro più ampio che comprende anche la normativa in materia di due diligence di sostenibilità. Un’eventuale adozione di misure volte ad impedire la commercializzazione di prodotti derivanti dal lavoro forzato deve infatti essere intesa come un’extrema ratio necessaria, nel caso in cui le misure di prevenzione si sono dimostrate insufficienti. Inoltre, la due diligence di sostenibilità potrebbe avere un ruolo al fine di verificare la sussistenza di rischi derivanti dal lavoro forzato, anche nel quadro delle misure di trade. Tali aspetti dovranno essere chiariti a livello comunitario, al fine di garantire la certezza del diritto, la coerenza delle politiche comunitaria ed una maggiore efficacia degli strumenti legislativi adottati.