Non firma la lettera di incaricato al trattamento dei dati personali: è legittima la sospensione della lavoratrice dal ...
È legittima, secondo il Tribunale del Lavoro di Udine, la sospensione dal servizio e della retribuzione della lavoratrice (una caposquadra portalettere) che si era rifiutata di sottoscrivere l’atto di designazione come incaricata al trattamento dei dati personali. La dipendente aveva impugnato il provvedimento, chiedendo la riammissione al lavoro e, in subordine, l’assegnazione a mansioni diverse, ma il Tribunale non le ha dato ragione.
La vicenda trae origine dal rifiuto della portalettere di firmare la lettera di designazione quale incaricato al trattamento di dati, atto contenente, in conformità a quanto previsto dalla normativa applicabile, le istruzioni sulle modalità di trattamento dei dati, nonché l’accettazione dell’impegno a trattare i dati con la dovuta riservatezza e a svolgere la specifica formazione in materia, fornita dallo stesso datore di lavoro.
L’azienda ha difeso la propria decisione sostenendo che, senza la sottoscrizione dell’atto di designazione a incaricato del trattamento, la lavoratrice non poteva operare nel rispetto della normativa sulla privacy, esponendo così l’azienda al rischio di incorrere in responsabilità sia di natura civilistica, verso i soggetti interessati da eventuali trattamenti illegittimi (in quanto posti in essere da personale non adeguatamente istruito, come invece richiesto dagli articoli 29 e 32, co. 4 del GDPR), sia di natura amministrativa (ai sensi dell’art. 83 del GDPR).
Il GDPR impone, infatti, ai datori di lavoro di garantire che i propri dipendenti, che trattano dati personali, siano adeguatamente formati e autorizzati a farlo. Il rifiuto della lavoratrice è stato quindi interpretato come un comportamento disciplinarmente rilevante, nonché un impedimento allo svolgimento delle sue normali mansioni.
Il giudice del lavoro ha dunque rigettato la richiesta della dipendente ritenendo che l’azienda avesse agito correttamente sospendendola dal lavoro, poiché il suo rifiuto di accettare l’incarico rendeva impossibile proseguire il rapporto lavorativo nelle mansioni assegnate (anche a fronte dell’impossibilità di affidarle altri incarichi che non comportassero comunque il trattamento di dati personali, ricollocamento che il datore di lavoro non era comunque tenuto a garantire).
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