Recupero crediti e patrimonio incapiente: quale tutela se il debitore cede i suoi beni a un acquirente che poi fallisce?
Nel corso dei rapporti commerciali, soggetti privati, imprenditori o società che attraversano condizioni di temporanea difficoltà potrebbero decidere di trasferire i propri beni per procurarsi nuova liquidità.
Tale scenario, già ricorrente, sembra destinato a verificarsi sempre più spesso a causa dell’impatto della pandemia da Covid-19 sull’economia mondiale e della crisi di liquidità globale.
Le alienazioni di beni, però, rischiano di provocare una diminuzione del patrimonio dell’alienante, con potenziale pregiudizio alle ragioni dei suoi creditori. Non è raro, infatti, che una volta venduta la casa di proprietà o ceduti i beni aziendali del debitore, la possibilità di effettivo realizzo dei crediti si riduca drasticamente.
Come noto, a certe condizioni il creditore può neutralizzare gli atti compiuti dal debitore che lo pregiudicano (come ad esempio una vendita/cessione di beni apparentemente fraudolenta) attraverso l’azione revocatoria, ordinaria ex art. 2901 c.c. o “semplificata” ex art. 2929-bis c.c., anche a discapito del relativo acquirente.
Può accadere, tuttavia, che prima dell’introduzione della revocatoria il terzo acquirente fallisca.
Dichiarato il fallimento del terzo acquirente, è ancora possibile per il creditore revocare la cessione del bene, recuperando la prospettiva di soddisfarsi in seguito sul suo valore economico?
A tale quesito la giurisprudenza ha sempre dato risposta negativa, ma recentemente questa conclusione è stata ribaltata dalle Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza del 24 giugno 2020, n. 12476.
Il caso all’attenzione della Suprema Corte riguardava la singolare ipotesi della cd. “revocatoria tra fallimenti”. La Curatela del fallimento della società debitrice, cioè, agiva in revocatoria ordinaria e fallimentare (nell’interesse della massa dei creditori della società fallita) per far rientrare nell’asse fallimentare la precedente cessione dei beni effettuata dalla società ad un terzo acquirente, anch’esso poi fallito. Pertanto, nella vicenda in parola una curatela agiva in revocatoria contro l’altra curatela del fallimento – sopravvenuto rispetto alla cessione dei beni aziendali.
Nonostante tali specificità, la Corte ha fornito chiarimenti di carattere generale sull’ammissibilità della pretesa revocatoria verso l’acquirente fallito, sia essa esercitata dal creditore direttamente o (se anche il debitore-alienante è fallito) dalla curatela del debitore che agisce per la massa dei creditori.
La Cassazione, rivedendo parzialmente quanto aveva affermato a Sezioni Unite neppure due anni prima su vicende analoghe (Cass. Sez. Un. 23 novembre 2018, n. 30416), ha chiarito che anche in questa eventualità la legge prevede una tutela per i creditori.
Infatti, nel caso in cui l’azione revocatoria non sia stata introdotta dal creditore prima del fallimento del terzo acquirente, essa – pur non potendo condurre al recupero del bene nel patrimonio del debitore-cedente per il successivo esercizio dell’azione esecutiva – può consentirgli di soddisfarsi sul ricavato economico della liquidazione dei beni del fallito acquirente, in concorso con i creditori di quest’ultimo e nei limiti del controvalore economico del bene acquistato.
Secondo le Sezioni Unite, in particolare, il creditore può insinuarsi al passivo del fallimento dell’acquirente (art. 93 della legge fallimentare) per il valore del bene oggetto dell’atto dispositivo astrattamente revocabile, formalizzando al giudice fallimentare anche la particolare richiesta di c.d. “delibazione della pregiudiziale costitutiva”.
In altre parole, il creditore dovrebbe agire in revocatoria seguendo le specificità della procedura di fallimento per poter aggredire il bene venduto al fallito. In tale contesto, egli dovrebbe chiedere al giudice del fallimento il previo accertamento dell’impraticabilità di un’azione revocatoria individuale costitutiva: l’impraticabilità, infatti, è causata dal dichiarato fallimento (perché un’azione costitutiva contrasterebbe con gli articoli 42, 44, 45, 51 e 52 legge fall.) e giustifica, in tal sede, l’esercizio della diversa azione di restituzione del valore economico del bene.
Alla luce della novità giurisprudenziale, di fronte a debitori che siano divenuti patrimonialmente incapienti, creditori quali privati, imprenditori, società e curatele fallimentari potranno far valere le ragioni creditorie anche su beni trasferiti a soggetti poi falliti.
Ciò, tuttavia, in concorso coi creditori del fallito e sempre a condizione che le vie legali siano state adite in maniera corretta. Nel caso della sentenza esaminata, infatti, l’azione revocatoria era stata esercitata dalla curatela non ai sensi dell’art. 93 legge fall., ma nelle forme della rivendica ex art. 103 legge fall.: questo, ad avviso della Cassazione, avrebbe comunque portato al rigetto della domanda.