Sfruttare l’estensione del Modello 231 ai reati tributari per prepararsi alla Cooperative Compliance
L’esigenza di recuperare gettito fiscale e di contrastare il fenomeno dell’evasione hanno comportato l’inasprimento del trattamento sanzionatorio nei confronti dei comportamenti evasivi e l’introduzione di strumenti di “pressione” economica per incentivare il contribuente al pagamento del debito tributario. La progressiva limitazione dell’istituto della prescrizione – che nel settore dei delitti tributari pare anche più marcata rispetto ad altri settori penali – ha ulteriormente inciso sulle possibilità per l’imputo di andare esente dalla pena senza preventivamente aver estinto il debito fiscale. Da ultimo, l’inclusione dei reati tributari nel novero del “catalogo 231” ha reso non più procrastinabile l’adozione di un Modello di compliance idoneo alla prevenzione del rischio reato-fiscale. D’altra parte, soprattutto nel settore fiscale, una politica aziendale orientata alla compliance (si pensi anche alla disciplina della “Cooperative Compliance” introdotta dal D.Lgs. 128/2015 e recentemente estesa) consente alle società di contenere il rischio di incorrere in gravose sanzioni e di beneficiare di aspetti premiali significativi.
Nell’ultimo ventennio abbiamo assistito al progressivo inasprimento del trattamento sanzionatorio (amministrativo, penale e, da ultimo, anche ai sensi del D.Lgs. 231/2001) dei comportamenti del contribuente che, in estrema sintesi, si risolvono nel mancato versamento delle imposte all’Erario.
A fronte dell’esigenza sempre più pressante di contrastare il fenomeno dell’evasione fiscale e della crescente riprovazione sociale nei confronti dei comportamenti evasivi, il Legislatore è in particolare intervenuto più volte sulla normativa penal-tributaria, nella prospettiva di “piegare” lo strumento penale alle esigenze di “cassa” dell’Amministrazione Fiscale.
Il risultato, ad oggi, è un complesso corpo sanzionatorio nel quale il rischio di duplicazione della risposta punitiva deve considerarsi concreto. Ad esso si accompagnano modifiche della disciplina della prescrizione del reato che, soprattutto rispetto ai delitti penal-tributari, si risolvono nella sostanziale eliminazione dell’istituto.
A vent’anni esatti dalla sua entrata in vigore, infatti, il “codice” penal-tributario racchiuso nel D.Lgs. 74/2000 è stato più volte modificato e, a parte qualche isolata eccezione, tali modifiche sono sempre state in senso repressivo e tese a colpire le ricchezze del contribuente infedele.
Il primo innesto risale all’introduzione dei reati di omesso versamento delle ritenute (art. 10-bis, introdotto nel 2004), dell’IVA e del reato di indebita compensazione (rispettivamente, artt. 10-ter e 10-quater, inseriti nel 2006) nel tessuto del D.Lgs. 74/2000, originariamente focalizzato sulla penalizzazione delle sole condotte dichiarative.
Di lì a poco, con la Legge Finanziaria per il 2008 il Legislatore ha esteso lo strumento della confisca obbligatoria (anche) per equivalente del profitto (ossia, dell’imposta non versata) ai casi di condanna anche a seguito di patteggiamento per alcuni dei reati tributari previsti dal D.lgs. 74/2000 (successivamente estesa a tutti i reati tributari).
Nel 2011 il Legislatore è nuovamente intervenuto sul D.Lgs. 74/2000, da un lato, abbassando le soglie di rilevanza penale previste per i reati “meno gravi” ed eliminando le ipotesi attenuate previste per i reati di utilizzo ed emissione di fatture per prestazioni inesistenti; dall’altro, introducendo per il contribuente che intende patteggiare in sede penale l’obbligo di preventiva estinzione del debito fiscale.
Sempre nel 2011 è stato prolungato il termine di prescrizione dei reati tributari più gravi, portando a complessivi dieci anni il periodo entro il quale il giudice penale poteva arrivare ad una sentenza.
Risalgono al 2015 alcuni interventi di riforma di segno parzialmente opposto, tesi a mitigare la vis sanzionatoria dei precedenti “ritocchi” (in questa prospettiva, soprattutto l’innalzamento delle soglie di rilevanza penale) e a favorire l’incentivazione di condotte estintive del debito tributario con strumenti premiali (infra).
L’intento marcatamente repressivo è tornato invece a caratterizzare gli ultimi e più recenti interventi di riforma.
Il primo, realizzato con il D.L. 124/2019, non solo ha nuovamente inasprito il trattamento sanzionatorio per quasi tutti i reati tributari, con effetti significativi ed ulteriori sulla durata del termine di prescrizione e estendendo la possibilità di disporre il carcere preventivo anche per le ipotesi di infedele ed omessa dichiarazione; ma ha ulteriormente arricchito gli strumenti di aggressione economica della ricchezza del contribuente evasore rendendo applicabile anche ai principali reati tributari la confisca per sproporzione – originariamente pensata per i delitti di mafia e poi estesa anche a molte altre fattispecie criminose.
Ma la modifica che maggiormente caratterizza la riforma del 2019 consiste nell’introduzione dei principali reati tributari (ossia i reati di utilizzo ed emissione di fatture per prestazioni inesistenti, rispettivamente artt. 2 e 8, dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, art. 3, distruzione o occultamento delle scritture contabili, art. 10, e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, art. 11) nel catalogo dei reati presupposto che fanno scattare, in aggiunta alla responsabilità penale personale della persona fisica (generalmente il legale rappresentante della società), anche la responsabilità amministrativa (para-penale) degli enti ai sensi del D.Lgs. 231/2001.
Tale parabola repressiva è stata portata a termine con il D.lgs. 75/2020 che, recependo la c.d. Direttiva PIF, ha ulteriormente esteso la responsabilità dell’ente agli artt. 4 (dichiarazione infedele), 5 (omessa dichiarazione) e 10-quater (indebita compensazione) ma, in questo caso, subordinando il coinvolgimento della società al ricorrere congiunto di due condizioni:
- realizzazione nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri;
- fine specifico di evadere un’IVA non inferiore a 10.000.000.
In caso di condanna, la società rischia una sanzione pecuniaria particolarmente elevata (pari ad un massimo di euro 775.000, aumentati di un terzo se il risparmio d’imposta è di rilevante entità) alla quale si aggiunge la confisca anche per equivalente del profitto; ma rischia altresì l’applicazione di sanzioni interdittive (quali ad esempio la sospensione/revoca di autorizzazioni o di licenze oppure il divieto di contrarre con la PA) che, nei fatti, possono compromettere fortemente l’operatività della persona giuridica.
Tali sanzioni si aggiungono a quelle applicabili alla persona fisica e, nei fatti, rischiano di sommarsi alle sanzioni autonomamente irrogabili dall’Amministrazione Finanziaria, con effetti cumulativi che possono mettere in ginocchio anche le realtà imprenditoriali più sane.
A fronte del draconiano apparato sanzionatorio sopra appena accennato, il Legislatore ha al contempo implementato un sistema di incentivi alla definizione del debito tributario che, previa estinzione del debito fiscale, consentono a determinate condizioni all’imputato di andare esente dalla sanzione penale (art. 13 d.lgs. 74/2000) o, comunque, di mitigare in maniera significativa gli effetti negativi di una condanna (art. 13 bis d.lgs. 74/2000, non solo in termini di dosimetria della pena, ma anche in tema di non applicazione delle sanzioni accessorie, talvolta più afflittive della pena principale).
È bene però evidenziare un dato fondamentale.
Il pagamento del debito tributario che, nei tempi e nei modi previsti dall’art. 13, può determinare la non punibilità dell’autore del reato/persona fisica, non comporta sic et simpliciter la non punibilità anche dell’illecito amministrativo ascritto alla persona giuridica ai sensi del D.lgs. 231/2001.
L’art. 8 D.lgs. 231/2001 sancisce infatti il principio di autonomia dell’illecito dell’ente rispetto al reato commesso dalla persona fisica, sicché anche nei casi nei quali la legge accorda la non punibilità, residua comunque la responsabilità dell’ente collettivo, proprio in virtù del richiamato principio di autonomia di cui all’art. 8.
Sul punto la dottrina non ha mancato di evidenziare la contraddittorietà di un sistema che, da un lato, incentiva fortemente l’estinzione del debito tributario premiando l’imputato/persona fisica; dall’altro, non estende detto beneficio alla società che, nella totalità dei casi, si fa carico del pagamento del debito medesimo.
Deve però evidenziarsi che la responsabilità amministrativa dell’ente si fonda, almeno in parte, su di un presupposto diverso rispetto a quella della persona fisica. La colpa dell’ente, infatti, viene identificata in un difetto organizzativo che si è tradotto nella mancata prevenzione del reato della persona fisica.
Partendo da questa chiave di lettura, si comprende l’importanza dell’adozione di un adeguato sistema di prevenzione dei reati da parte degli enti collettivi, quale unico possibile rimedio alla sanzione prevista dal D.Lgs. 231/2001.
Solo dimostrando di aver adottato ed efficacemente attuato un sistema di compliance idoneo a prevenire la commissione di reati (in questo caso, reati tributari), l’ente potrà andare esente o mitigare dalla sanzione ovvero, comunque, evitare l’applicazione delle più gravose sanzioni interdittive che, in concreto, rischiano di compromettere l’operatività della società stessa.
Per tutte quelle realtà che già si sono dotate di un Modello Organizzativo, l’adeguamento alla nuova disciplina dei reati tributari è da considerarsi un adempimento non più procrastinabile: le fattispecie penal-tributarie disciplinate dal D.lgs. 74/2000 possono essere infatti realizzate nell’ambito di qualsiasi realtà economica, a prescindere dunque dalla tipologia di attività svolta, dalle dimensioni aziendali o dal volume d’affari.
Per gli stessi motivi, altrettanto improcrastinabile è divenuta l’adozione ex novo del Modello Organizzativo ex D.lgs. 231/2001 da parte di tutte quelle realtà che, ad oggi, ne sono tuttora prive.
Alla luce dell’inclusione dei reati tributari nel catalogo dei reati che possono coinvolgere la responsabilità amministrativa degli enti, sussistendone i presupposti, l’adozione/aggiornamento del Modello 231 può essere accompagnata anche dall’adesione al regime dell’Adempimento Collaborativo istituito con il D.Lgs. 128/2015 (c.d. Cooperative Compliance) inizialmente previsto per le realtà con fatturato superiore a dieci miliardi di euro, oggi ridotto a cinque miliardi di euro con Decreto del MEF del 30 marzo 2020.
L’accesso a tale sistema implica per il contribuente interessato l’adozione di un efficace sistema di controllo del rischio fiscale inserito nel contesto del sistema di governo aziendale e di controllo interno (c.d. Tax control framework).
L’efficace adozione di un simile modello comporta, sul piano fiscale, l’adozione di una modalità completamente innovativa di interlocuzione con l’Agenzia delle Entrate, con la possibilità di pervenire a una comune valutazione delle situazioni suscettibili di generare rischi fiscali prima della presentazione delle dichiarazioni fiscali (ossia prima della consumazione del reato e/o della violazione amministrativa); nonché di beneficiare di rilevanti effetti premiali quali la procedura abbreviata di interpello, l’applicazione di sanzioni sensibilmente ridotte in caso di accertamento di violazioni, nonché l’esonero dall’obbligo di prestare garanzie per i rimborsi.