Sostenibilità: quali doveri per gli amministratori?
Dalle società benefit alla human rights due diligence
Lo studio diffuso di recente da Assonime su “Doveri degli Amministratori e Sostenibilità”, fornisce l’occasione per svolgere alcune riflessioni sui profili normativi e regolamentari che, sempre di più, vanno emergendo sia a livello Europeo che nazionale1.
La questione, maggiormente rilevante, che fa da cornice al ragionamento riguarda la possibilità per gli amministratori di una società di prendere in considerazione interessi diversi da quelli (lucrativi) degli azionisti.
Non v’è dubbio che, con riferimento all’ordinamento italiano, vada emergendo una sempre maggiore attenzione verso interessi più ampi rispetto a quelli dei soci, tendenza che trova riscontro anche all’interno di provvedimenti normativi dedicati.
Se da un lato il tenore letterale dell’articolo 2247 del Codice Civile – “con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili” – porterebbe a ritenere come l’unica responsabilità degli amministratori sia legata alla generazione di profitti per gli azionisti, dall’altro non si può non rilevare come i principi del cd. “stakeholderism” tendano sempre di più ad avere un peso nella governance e nella gestione di una impresa.
Per fare un esempio, sulla base delle previsioni contenute nel nuovo Codice della Corporate Governance, l’organo di amministrazione è tenuto a guidare la società perseguendone il successo sostenibile, che si sostanzia nella “(…) creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società”. La sostenibilità e gli interessi degli stakeholder fanno, dunque, il proprio ingresso ufficiale all’interno dei modelli di corporate governance delle società quotate.
Un ulteriore tassello utile a popolare ulteriormente questo scenario, riguarda l’introduzione in Italia delle società benefit, una qualifica che possono acquisire le società che, nell’esercizio di un’attività economica, intendono perseguire una o più finalità di “beneficio comune”, operando in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse.
Sembra di poter dire come questo nuovo modello societario, cristallizzi i tre punti cardine che alimentano il dibattito in questo ambito, ovvero: la possibilità di inserire “clausole altruistiche” nell’oggetto sociale; il dovere degli amministratori di bilanciare gli interessi dei soci con quelli delle altre categorie sulle quali la società può avere un impatto (es. comunità, ambiente, lavoratori, etc.); l’obbligo di dare evidenza del “valore” generato attraverso l’utilizzo di un adeguato standard di valutazione.
Come evidenziato nel rapporto di Assonime, sussiste certamente una relazione tra sostenibilità, rischio e valore dell’impresa, ma le società che incorporano la sostenibilità – con particolare riferimento ai criteri ESG – nei loro modelli di business “sono caratterizzate da un grado di rischio inferiore e da una elevata profittabilità nel lungo termine”.
In particolare, con riferimento al ruolo degli amministratori, la norma prevede come siano tenuti a bilanciare l’interesse dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi dei vari stakeholder; trattandosi di un obbligo preciso, in caso di inadempimento si applica quanto disposto dal Codice civile in tema di responsabilità. Inoltre, le società benefit – qualora non perseguano le finalità di beneficio comune indicate nello statuto – sono soggette alle disposizioni in materia di pubblicità ingannevole ed a quelle del codice consumo.
Non occorre alcuno sforzo interpretativo per affermare come la società benefit renda – di fatto – vincolante la “sostenibilità” e obblighi gli amministratori a contemperare l’interesse dei soci con le finalità di beneficio comune. È opportuno rilevare, inoltre, come un ruolo fondamentale lo rivestano gli obblighi di valutazione dell’impatto, argomento trasversale che riguarda anche le società di grandi dimensioni.
In particolare, con l’attuazione della Direttiva 2014/95/UE – relativa alla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario (“DNF”) – gli “enti di interesse pubblico”, quali ad esempio società con strumenti finanziari quotati, banche, società di gestione del risparmio, etc. – sono tenute a redigere annualmente una “dichiarazione di carattere non finanziario”, al fine di assicurare la comprensione dell’attività dell’impresa, dei suoi risultati e dell’impatto generato, con riferimento specifico alle tematiche di carattere ambientale, sociale ed attinente al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione.
La disciplina europea sulla DNF ed il suo recepimento a livello nazionale con il d.lgs. 254/2016 rappresentano uno degli esempi più emblematici di come le iniziative legislative a livello comunitario, abbiano acquisito assoluta centralità nella trasformazione in chiave sostenibile del mercato comunitario e internazionale con significative ricadute anche a livello nazionale. Tra i più recenti interventi normativi guidati dalle direttive europee merita un cenno il d.lgs. n. 49/2019 che ha trasposto la Revisione della Direttiva sui diritti degli azionisti (2017/828/UE, cd. SHRD II). Il decreto ha modificato la disciplina nazionale delle politiche di remunerazione richiedendo alle società quotate di illustrare come la politica di remunerazione degli amministratori contribuisca al perseguimento degli interessi a lungo termine e alla sostenibilità della società. Questa indicazione ha contribuito ulteriormente al processo di allineamento degli interessi degli amministratori con gli obiettivi strategici dell’impresa, fra cui quelli ambientali e sociali.
Già da questa breve ricognizione appare quindi evidente come il contesto giuridico, così come le norme di autodisciplina delle principali società europee e italiane stiano già convergendo verso un modello di impresa che incentivi il perseguimento di obiettivi di lungo termine e l’integrazione dei fattori ambientali e sociali rilevanti nelle scelte gestionali.
L’attuale evoluzione dell’ecosistema normativo comunitario in ambito Environment, Social e Governance (ESG) ci presenta però un imminente quadro di obblighi di compliance, disclosure e misurazione sempre più estesi per gli operatori finanziari, per le società quotate, ma a tendere, anche per le PMI che, a vario titolo, operano sul mercato europeo. A fronte di tale evoluzione, la sostenibilità, per gli amministratori, non può più essere vissuta come un esercizio compliance fine a sé stesso, ma richiede scelte e decisioni strategiche che impattino sulla mission, sulla governance, sull’organizzazione e sui prodotti, con l’obiettivo di migliorare il proprio posizionamento sul mercato e anticipare gli obblighi di compliance integrando la generazione di valore sociale e ambientale nella strategia d’impresa.
Basti pensare alla bozza di Direttiva su corporate due diligence and accountability approvata dal Parlamento Europeo lo scorso 10 marzo e al vaglio Commissione Europea entro giugno 2021, finalizzata a prevenire e mitigare gli impatti negativi sui diritti umani, la governance e l’ambiente lungo tutta la catena del valore.
Fra i destinatari oggi compresi nella proposta figurano tutte le imprese di grandi dimensioni operanti nell’UE, tutte le PMI quotate in borsa e tutte le PMI operanti in settori ad alto rischio, anche se soggette al diritto di un paese terzo, qualora vendano beni o servizi all’interno dell’UE. La Direttiva dovrebbe imporre a tutti i destinatari l’adozione di un processo di due diligence in grado di identificare e valutare impatti potenziali o effettivi sui diritti umani, l’ambiente o la governance generati dalla proprio modello di impresa mediante una metodologia basata sull’identificazione dei rischi connessi ai profili ESG e sull’adozione di politiche e misure volte a cessare, prevenire o comunque mitigare i rischi tenendo conto della probabilità, della gravità e dell’urgenza degli impatti negativi. E’ importante notare come la bozza di Direttiva, così come le altre iniziative legislative in corso a livello comunitario, sottolineino l’assoluta centralità del rispetto dei diritti umani come elemento che si estrinseca non soltanto nei profili tipicamente sociali (“S”), legati ad esempio ai diritti dei lavoratori e alle discriminazioni religiose, etniche, sessuali e di genere, ma anche ambientali (“E”) intesi e declinati nel diritto ad un ambiente sano e salubre e ad una vita dignitosa.
A fronte dello scenario attuale, anche le conclusioni del citato rapporto di Assonime rilevano come il concetto di “successo sostenibile” – così come delineato dal nuovo Codice di Corporate Governance – abbia ormai integrato la cogenza del dettato normativo e la disciplina societaria sostanziale, al punto da farne elemento imprescindibile di ogni scelta e valutazione degli amministratori. Vale la pena però sottolineare come lo stesso rapporto mostri ancora qualche “timidezza” sulla profondità degli interventi che questa evoluzione richiederà, progressivamente, a tutte le imprese: auspicare ad esempio che gli obblighi di due diligence ESG assumano la forma di “misure proporzionate al potere contrattuale della società nei confronti dei soggetti coinvolti nella catena di fornitura”, significa volerne ancora limitare la portata e l’efficacia a meccanismi di verifica e controllo tradizionali, che non tengono però conto e non possono – quindi – misurare gli impatti generati e migliorare l’effettiva sostenibilità dell’itera catena del valore.
La sfida e l’opportunità davanti alle quali sono oggi posti gli amministratori delle maggiori società europee in materia di sostenibilità, richiedono ripensamenti sostanziali e nuove strategie d’impresa. Svolgere, ad esempio, un’effettiva ed efficace human rights due diligence richiede un processo trasversale e capillare di analisi e conoscenza della filiera che non può prescindere da momenti di interazione e collaborazione tra i vari attori che la compongono e che, per contro, non può esprimersi in una mera imposizione verticale di vincoli contrattuali. Limitarne la portata ad esercizi di rendicontazione e controllo significherebbe non comprendere la portata epocale dell’attuale evoluzione non soltanto normativa, ma dell’intero mercato globale.
1 Rapporto Assonime 6/2021 del 18 Marzo 2021 “Doveri degli amministratori e sostenibilità”.