Tra libertà d’informazione e diritto all’oblio: dove pende l’ago della bilancia?
Il diritto ad essere dimenticati. Un diritto quanto mai controverso, dai contorni quanto mai indefiniti, ma ormai divenuto di vitale importanza in un mondo in cui è sempre più facile conoscere e, di conseguenza, ricordare. Come ormai tutti sappiamo, l’avvento di Internet e in particolare delle ICT ha cambiato profondamente le nostre vite: ci ha fornito risorse comunicative prima inimmaginabili, ci ha reso più consapevoli di noi stessi e del valore delle informazioni che ci riguardano, ci ha garantito accesso illimitato ad ogni branca del sapere umano. In una sola parola, ci ha dato la conoscenza. Certamente un incommensurabile beneficio, ma anche un’arma a doppio taglio.
Il diritto all’oblio, di matrice giurisprudenziale, è stato costruito per dare tutela all’interesse del singolo ad evitare che la permanenza a tempo indefinito in Rete di dati e informazioni risalenti ne leda i diritti e le libertà fondamentali, in particolare la dignità, la riservatezza, l’identità personale, la protezione dei dati personali (come sancito dall’art. 2, d.lgs. 30/06/ 2003, n. 196, di seguito “Codice Privacy”).
Mai come nel tema del diritto all’oblio si manifesta così chiaramente la natura ambivalente della conoscenza, al contempo risorsa per la collettività e fonte di pregiudizio per l’individuo.
A due anni di distanza dalla celebre sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nota alle cronache come “sentenza Costeja”, il diritto all’oblio torna sotto i riflettori.
Con provvedimento n. 152 del 31 marzo 2016 il Garante per la protezione dei dati personali ha negato l’oblio ad un ex terrorista attivo negli Anni di Piombo, condannato per molteplici reati di stampo terroristico ed eversivi dell’ordine democratico. Il pregiudicato, dopo aver scontato la sua pena ed essersi ricostruito una vita, alcuni anni dopo l’uscita dal carcere ha legittimamente chiesto a Google di rimuovere (tecnicamente, di “deindicizzare”) alcuni URL restituiti come risultati alla digitazione del suo nominativo nella stringa di ricerca, relativi a fatti di cronaca, voci enciclopediche, studi, atti processuali che lo concernevano, nonché alcuni suggerimenti di ricerca visualizzati dalla funzione di “Completamento automatico”; è infatti prerogativa del proprietario dei dati di ottenere dal titolare del trattamento l’aggiornamento, la rettificazione, la cancellazione, la trasformazione di dati di cui non è più necessaria la conservazione ai fini per cui sono stati raccolti o trattati (ai sensi degli artt. 7 e 8, Codice Privacy) o che comunque non abbiano più rilevanza pubblica (ai sensi dell’art. 11 della Dichiarazione universale dei diritti in Internet).
Vedendosi sbarrata questa porta, ha proposto ricorso all’Autorità garante per la protezione dei dati personali rinnovando la richiesta di rimozione. A sostegno delle sue doglianze, il ricorrente ha posto l’accento su vari aspetti: sul nuovo ed onesto percorso di vita intrapreso, sul carattere estremamente fuorviante e pregiudizievole dei dati in questione rispetto ad esso e, soprattutto, sull’insussistenza, alla luce del decorso del tempo e del suo ruolo marginale all’interno della società (di cittadino qualunque), dell’interesse alla pubblicità di simili dati. Il resistente, per contro, insisteva sull’intramontabilità dell’interesse pubblico a conoscere e ricordare fatti attinenti a uno dei periodi più bui della storia italiana e sull’estrema gravità dei reati commessi dal pregiudicato, che ne avrebbero giustificato la permanenza in Rete.
Nel procedimento innanzi il Garante, il ricorrente e il resistente si sono dunque fatti portatori dei due contrapposti interessi sottesi al diritto all’oblio, animando uno degli ennesimi scontri tra “privato” e “pubblico”: la libertà di informazione e il diritto di accedere agevolmente a dati del patrimonio storico nazionale, da un lato, il diritto di controllare i propri dati e la possibilità di non subire pregiudizio eccessivo per la loro pubblicazione, dall’altro.
Nell’operare il bilanciamento tra i due, il Garante ha ritenuto preminente l’interesse pubblico ed ha perciò rigettato il ricorso. La decisione è stata accompagnata da un generale clima di stupore. Molti infatti pensavano che l’Autorità si sarebbe allineata alla posizione della Corte di Giustizia, la quale il 13 maggio 2014 aveva reso una dirompente sentenza, con cui riconosceva il diritto del ricorrente a ottenere da Google la deindicizzazione dei dati relativi alla vendita all’asta di un suo appartamento per debiti contratti, ma successivamente saldati, che rischiavano di condizionare la sua vita e la sua professione attuali. Principi ispiratori della sentenza sono stati il rispetto della vita privata e la protezione dei dati personali (diritti garantiti dalla Carta di Nizza) e la convinzione che i sistemi di trattamento dei dati siano al servizio dell’uomo e debbano pertanto rispettarne le libertà e diritti fondamentali e contribuire al loro benessere (considerando 2 della direttiva 95/46/CE); e questi interessi del singolo – la Corte ha ritenuto – devono prevalere sugli interessi economici del motore di ricerca e sull’interesse generale alla libertà di informazione.
Il provvedimento del nostro Garante, invece, sembra non aver attribuito a tali valori un analogo rango. È innegabile che alla base di questa scelta ci siano ragioni molto forti: i dati giudiziari di cui è stata richiesta la cancellazione riguardano vicende giudiziarie ben più gravi (rispetto a quelli oggetto del rinvio pregiudiziale) e un ruolo primario è sicuramente stato giocato dalla speciale sensibilità per una pagina buia della storia italiana e dalla più che giustificata avversione per il fenomeno terroristico, probabilmente risvegliati dai recenti avvenimenti.
Ma possiamo onestamente dire che tutto ciò sia sufficiente a negare ad un essere umano la possibilità di rifarsi una vita senza essere perseguitato dall’ombra costante del suo passato, indelebilmente fissato nei database sotto gli occhi di tutti? Può il nostro sistema, improntato alla finalità rieducativa della pena, permettere che un uomo sia costretto a pagare per i propri errori in eterno, anche dopo aver scontato la giusta condanna inflittagli? Può la libertà di informazione assumere una posizione di supremazia tale da frustrare qualsiasi altro diritto della persona?
Degno di nota è, in questo senso, il fatto che il nostro codice penale annoveri tra le pene accessorie, quindi tra le misure di carattere ulteriormente afflittivo, proprio la pubblicazione della sentenza penale: può dunque qualcuno, che non sia il giudice legittimamente investito della causa, arrogarsi il diritto di “infliggere” questa pena, per di più con modalità amplificate ed a tempo indeterminato?
In definitiva, il diritto all’oblio è anche questo: il diritto ad evitare che qualsiasi condanna sia trasformata in un ergastolo. E forse, se questa considerazione fosse entrata nel bilanciamento, l’ago della bilancia si sarebbe orientato diversamente.
Camilla Scalvini