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Un caso di diffamazione “anonima” su Facebook

 

Corte di Cassazione Penale, sezione I, 22 gennaio 2014 (dep. 16 aprile 2014), n. 16712

Secondo un recente intervento della Corte di Cassazione il reato di diffamazione si realizza anche nel caso in cui frasi diffamatorie “anonime” siano state riportate da un soggetto sulla propria pagina Facebook.

Esaminiamo la vicenda nel dettaglio.

Un militare aveva pubblicato sul proprio profilo personale Facebook, non accessibile alla generalità degli utenti, alcune frasi offensive nei confronti di un collega – non indicato nominativamente – e coinvolgendo altresì la moglie di questi, destinataria di volgari insinuazioni; la ragione di tale “sfogo”, in particolare, risiedeva nel fatto che l’imputato era stato recentemente e, a suo dire, ingiustamente, sostituito dal soggetto diffamato presso il comando di appartenenza (la frase incriminata, in particolare, era: “attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega raccomandato e leccaculo… per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie”).

La Corte militare d’Appello aveva assolto l’imputato per insussistenza del fatto dal momento che costui non aveva specificato né il nome del soggetto, né la funzione, né il comando di appartenenza, né ulteriori e specifici dati cronologici, così da impedire o comunque rendere non agevole  l’identificazione della persona offesa da parte di un numero peraltro molto limitato di soggetti (ovvero i soggetti “amici” aventi l’accesso al profilo personale Facebook dell’imputato).

A seguito dell’impugnazione del Procuratore Generale, la Corte di Cassazione ha totalmente ribaltato quanto stabilito dai giudici di secondo grado giungendo così all’annullamento della sentenza.

Vediamo gli argomenti proposti dalla Suprema Corte.

1.Vero che il soggetto diffamato non è stato indicato nominativamente, ma il nome della vittima non è l’unico ed esclusivo elemento determinante ai fini della individuazione della persona offesa; ed infatti le circostanze fattuali presenti nelle frasi diffamatorie, per quanto generiche (ovvero il riferimento alla “sostituzione” e la appartenenza ad un corpo militare), favoriscono, comunque, la compiuta identificazione del bersaglio delle offese per quanto mai precisamente nominato.

A supporto di tale principio la Corte richiama la pronuncia del 20/10/2010, n. 7410, CED 249601 che, invero, recepisce altre precedenti sentenze emesse sul punto (Cass. 28/3/2008, n. 18249, CED 239831; Cass. 7/12/1999, n. 2135, CED 215476)

2.Allorché una notizia o, come nel caso in esame, una frase diffamatoria, viene immessa nel circuito di internet, la sua diffusione – e quindi la comunicazione con più persone, requisito indispensabile ai fini della realizzazione del reato di diffamazione – deve presumersi sino a prova contraria; in sostanza, quindi, non è necessario dimostrare che le frasi siano state effettivamente percepite da almeno due persone, ma, si ripete, in caso di utilizzo di internet, tale circostanza si deve ritenere pacifica, salvo prova contraria.

Ovvio che in tale contesto poco importa se il profilo su cui sono comparse le offese incriminate fosse accessibile ad un numero indeterminato di utenti o solo al gruppo di “amici” dell’imputato.

Anche il principio sopradetto trova conferma in un precedente ed ormai consolidato orientamento di legittimità: si veda in tal senso Cass. 21/6/2006, n. 25875, CED 234528; Cass. 4/4/2008, n. 16262, CED 239832; Cass. 27/4/12, n. 23624, CED 252964.

3.Una volta verificata la sussistenza degli elementi oggettivi del reato di diffamazione, la Corte si sofferma brevemente sull’elemento soggettivo del dolo della diffamazione, ritenendolo pacificamente sussistente.

In particolare, si chiarisce in sentenza, la diffamazione non richiede affatto il dolo specifico e, quindi, in altre parole, non ha alcuna importanza che l’imputato non abbia perseguito la finalità – specifica – di danneggiare la reputazione altrui. 

Del resto, come già confermato da diverse pronunce (sul punto si veda, tra le tante, Cass. 15/7/10, n. 36602, CED 248431), ai fini della realizzazione del reato è sufficiente, in capo all’agente, il dolo generico e quindi la mera consapevolezza di pubblicare una frase dal contenuto diffamatorio e la consapevolezza che la stessa venga a conoscenza di almeno due soggetti, così come pacificamente accaduto nel caso in esame.

La sentenza pertanto, avendo integralmente recepito alcuni orientamenti giurisprudenziali ormai pacifici, non può dirsi certamente innovativa, ma ha comunque dalla sua il pregio di definire il perimetro applicativo della diffamazione nell’ambito di uno dei più popolari ed utilizzati social network che molti utenti, forse non pienamente consapevoli delle potenzialità e degli effetti di tale mezzo, ritengono ancora una sorta di “porto franco” in cui esprimere fin troppo liberamente i propri pensieri.

 

 

 

 

 

 

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